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Un racconto ha il potere di rappresentare il tempo,
di far sognare, viaggiare e riflettere.
Le parole diventano strumenti per andare altrove.

Questi racconti, di pochi minuti, vogliono essere una
delicata condivisione sul valore del tempo dedicato a noi stessi
e agli altri.

buona lettura

primo racconto

il tempo dell’amicizia

Fu svegliata dal silenzio. La casa era insolitamente tranquilla. Fuori, sulla città di Trento, albeggiava appena. Sembrava prepararsi una radiosa mattina di maggio. 

Un paio di giovani ronfavano sul divano con ancora addosso i vestiti del giorno prima. O forse di due giorni prima. Agli artisti si perdona tutto, no? Lucia tese l’orecchio: dalle camere da letto non arrivava alcun segno di vita. Anche il resto della sgangherata factory di giovani artisti che era piovuta lì da mezza Europa per preparare la grande mostra nella sua Galleria («posso ospitarli io, che ci vuole? La casa è grande» aveva assicurato Lucia al suo socio, prima di potersene pentire) era evidentemente immersa in un sonno profondo. 

Lucia fece per avviarsi verso la cucina, meditando che nemmeno una tazzona industriale di caffè l’avrebbe svegliata del tutto, ma prima si fermò a guardare dalla finestra, con la fronte appoggiata al vetro. Sotto, il cantiere del nuovo grande negozio che si stava allestendo al piano terra del palazzo di fronte era naturalmente ancora deserto, così come pure quel pezzo di via Oss Mazzurana che si offriva alla sua vista. La donna fu però colpita da una parola, scritta a caratteri molto grandi, che stava sui pannelli del cantiere: TEMPO. 

Non dimentichi qualcosa? pensò. Vagò per casa alla ricerca di un pezzo di carta e di una penna. Si sedette per terra, accovacciata. Posò il foglio sul parquet del pavimento e cominciò a scrivere: 

Carissima, selvatica e impareggiabile amica mia!

Da quanto tempo non scriveva una lettera? Stavolta però era diverso, si disse, stavolta è indispensabile. Continuò:

Da quando te ne sei andata, mi sono sforzata di ricordare ogni singolo dettaglio di tutto il tempo che abbiamo passato insieme. Un sforzo impossibile e ridicolo, mi diresti se fossi qui. Erica la saggia, ti ho sempre chiamata così. Avresti ragione: come ricordare una vita intera? A volte ho come l’impressione che sia volata, e che questo volo a perdifiato si sia portato via, lontano da qualche parte, anche la nostra amicizia. 

Ma adesso, qui seduta sul pavimento, in un’alba quieta che entra in punta di piedi da fuori, ho capito una cosa fondamentale. Sarà per il sogno che ho fatto stanotte? Penso di sì.

Eravamo io e te, in montagna. Dovevamo salire verso una vetta lontana. Il tempo sembrava non passare più. All’improvviso mi hai presa per mano e mi hai condotta verso un piccolo bosco. Hai scavato per terra: subito sono affiorati alcuni gioielli, pietre preziose, un piccolo tesoro. 

Quando mi sono svegliata, ho capito. Quello che vale davvero, il nostro «tesoro», non è quanto dura il nostro cammino né dove siamo destinati ad arrivare: quello che conta sono gli affetti, le persone che ci stanno vicine, perché sono loro la misura del valore del nostro tempo.

Lucia si fermò, con la penna a mezz’aria. Decise che avrebbe proseguito la lettera in un altro momento. 

Grazie, saggia e selvatica Erica - pensò mentre si rialzava sorridendo - sei stata la misura esigente e dolcissima della nostra amicizia: è il tempo che abbiamo dedicato a noi due che ha reso questo «noi» così bello, come quel tesoro nel bosco. La meraviglia del donare agli altri il proprio tempo è tutta qui, regali a qualcuno un pezzo della tua vita che non sarà più tuo, ma proprio per questo non andrà perduto. 

Un momento condiviso è un momento prezioso per sempre.

Assaporò il silenzio. Poteva sentire il suo cuore che batteva forte, adesso. 

secondo racconto

il tempo della creatività

- Atterri da fare schifo.

Il nonno aveva ragione. Filippo fece spallucce: - La prossima volta mi concentrerò meglio.

- Ah no, il vecchio Spitfire ne avrebbe a male! Pensi forse che questo vecchio arnese si ricordi di volare quando sta volando?

Il ragazzo gli rivolse un’occhiata dubbiosa. Con le massime del nonno Gustavo ci avrebbe potuto realizzare una serie infinita di reels su TikTok. Però la maggior parte delle volte non le capiva. 

Saltarono giù dall’aereo in una pista che stava in mezzo al nulla. Dov’erano capitati stavolta? Il nonno indovinò l’espressione dubbiosa del nipote: - Siamo in Bretagna, caro mio - esclamò trionfante. - Finisterre per la precisione.

Con un braccio indicò alla sua sinistra, con l’altro la parte opposta: 

- Di qua c’è Brest, ma non ci andiamo, piove sempre. Di là c’è la brughiera, vedi? E quello che ondeggia e muggisce di sotto è l’Oceano. O meglio, la Manica.

Con un balzo agilissimo furono entrambi su un altissimo promontorio, regno incontrastato dei gabbiani, tutto cosparso di licheni e fiori rossi. L’Oceano aveva onde che parevano enormi gobbe. In fondo c’era una foschia biancastra che impediva di vedere oltre, ma Filippo sapeva (non serviva essere in quarta liceo per saperlo!) che dietro quella foschia si celavano le bianche scogliere di Dover, e poi ancora più distante Londra. 

Il ragazzo fissò per un bel po’ l’orizzonte. Chiese al vento di portare via, lontano lontano, il senso di frustrazione e di rabbia che sentiva montargli dentro.

Ne parlò col nonno davanti a una fantastica Wiener Schnitzel, nel solito Biergarten di Monaco in cui si rifugiavano sempre per strafogarsi di nascosto. 

- Ummm. Rabbia e frustrazione, capisco sì.

Come diavolo faceva a capirlo? Filippo ogni tanto pensava che suo nonno fosse una specie di indovino.

- Londra. Tua madre e gli artisti che avete ospitato il mese scorso. Tua madre e la vacanza di lavoro - calcò bene su quella parola, lavoooooro - in cui vuole portarti la settimana prossima. Ma tu non vorresti, giusto?

Filippo alzò il pollice della mano, mentre addentava un lembo della cotoletta. Il nonno sorrise:

- Vieni con me.

Ma come, avevano già terminato il pranzo? Adesso erano infatti a Londra. Però a Filippo sembrava come se fossero stati dentro una macchina del tempo, perchè c’era sua madre che camminava velocemente, con lui al fianco, per le vie del centro. Ogni tanto si fermavano ad ammirare qualche monumento, come normali turisti, finché non si infilarono nella folla che assiepava l’entrata della Tate Gallery: Filippo sapeva che la sua vacanza londinese sarebbe stata tutta così. Affari da sbrigare e in mezzo qualche vago ritaglio di relax. Vacanza, tsé: la parola stessa non derivava forse dal latino vacans, cioè essere liberi? Liberi, cavoli. Li-be-ri!

Lo disse al nonno quando furono di nuovo sullo Spitfire, sopra il cielo di Trento. E prima di atterrare sul tetto della casa di Gardolo (eh, dove vuoi che vada, mica c’è più il vecchio aeroporto! protestò) il nonno Gustavo gli snocciolò un’altra delle sue massime proverbiali: 

- Tu hai ragione Filippo. Il tempo non è quella linea retta e implacabile che tutti immaginano. Il tempo è pieno di buchi: hai presente i vuoti d’aria dell’aereo? Ecco, un vuoto d’aria ti porta dove il piano di volo non aveva programmato di andare: ma quanti splendidi nuovi orizzonti puoi trovare così? Tieniti stretto il tuo diritto a non fare, a lasciarti distrarre dai pensieri in libertà. La vacanza serve a questo: a perdere la cognizione del tempo. Per ritrovare però un altro tempo, che è tutto tuo. Il tuo fantastico creativo e personalissimo vuoto d’aria.

Così dicendo il nonno girò la testa sulla poltrona e si appisolò.

- Dove avete fantasticato di andare stavolta? - La nonna si era affacciata sulla soglia del salotto con uno strofinaccio in mano.

Filippo sventolò la mano in segno di saluto mentre usciva dalla stanza. - Stavolta eravamo aviatori - sussurrò per non svegliare il nonno.

- Tu non sai il bene che gli fai. Da quando non riesce più a camminare… - La donna trattenne una lacrima, però sorrideva. - Ma non ti fermi a cena? Dove vai adesso?

- A perdere tempo, nonna. A perdere un sacchissimo di tempo.

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